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SDA cine review: La rappresentazione del potere nel cinema di Petri

(PREMESSA: Un compagno ci ha girato una sua tesina universitaria su Petri. La pubblichiamo a puntate,  e la usiamo per inaugurare CINE REVIEW un nuovo spazio di StatiDiAgitazione che sarà dedicato ai risvolti socio-politici del cinema)

Tutto è emanazione del potere e del modo di gestirlo: anche se coloro che sono al potere nulla ne sanno, e si può anche ammettere che ne siano, individualmente, quanto noi sgomenti. Ciò vale a dire che c’è in Italia un superpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella della indefinibilità tra estrema destra e estrema sinistra, tra una matrice di violenza e l’altra, tra e l’altra estrazione degli esecutori materiali.

La prefigurazione (e premonizione) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta, nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.

Leonardo Sciascia, Nero su nero, 1979.

Elio Petri ha realizzato undici film in poco meno di venti anni, dal 1961, (L’assassino) al 1979 (Le buone notizie). Il ventennio in questione è un periodo di grandi sconvolgimenti politici, sociali ed economici. Il ’68 e il ’77 indussero la società ad un generale ripensamento di e su sé stessa, sulle sue strutture e sui rapporti di potere vigenti. Gli stimoli più consistenti verso questo generale “ripensamento“ furono dati principalmente dagli intellettuali, scrittori, registi, pittori, anche se il Movimento subiva una forte spinta da e verso il basso.

Si più dire che tutta la filmografia di Petri sia essenzialmente una riflessione sul Potere e sull’Amore per il Potere. O, ad un’analisi più approfondita, sui Poteri.

La suddivisione classica, derivata dall’Illuminismo e dall’opera di Montesquieu e Rousseau in particolare, distingue principalmente tre grandi forme di Potere. Nel libro XI de Lo spirito delle leggi, Montesquieu traccia la teoria della separazione dei poteri. Partendo dalla considerazione che il “potere assoluto corrompe assolutamente”, l’autore analizza i tre generi di poteri che vi sono in ogni Stato: il potere legislativo (fare le leggi), il potere esecutivo (farle eseguire) e il potere giudiziario (giudicarne i trasgressori). 1. Le modificazioni sopravvenute dal ‘700 ad oggi ci consentono di individuare altri due Poteri: il Potere dei media (un film come Quarto Potere è emblematico, a partire dal titolo) e il Potere economico.

Non c’è opera di Petri che non possa essere considerata una riflessione e soprattutto una critica ad uno o più dei Poteri sopra elencati.

Provo a fornire i riferimenti in via generale, al fine di rendere chiare le corrispondenze:

Potere esecutivo (il Governo, la Polizia): L’assassino, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Todo modo (in parte), I giorni contati.

Potere legislativo (il Parlamento, la Politica in generale): Todo modo, A ciascuno il suo.

Potere Giudiziario (la Magistratura): Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, L’assassino, A ciascuno il suo (in parte), La decima vittima.

Potere dei Media (stampa, Tv): La decima vittima, Le buone notizie.

Potere economico (il denaro in sé, i mercati, il lavoro): La proprietà non è più un furto, La classe operaia va in Paradiso, Un tranquillo posto di campagna, I giorni contati.

Per riflettere sui rapporti tra il cittadino e i poteri, Petri sceglie quasi esclusivamente la cifra stilistica del grottesco e la figura retorica dell’allegoria, che si distingue dalla metafora, con la quale spesso si è cercato di interpretare il suo cinema, per via di un’assoluta pretesa di dominanza del significato sul significante, suo supporto materiale, e quindi per la tendenziale derealizzazione, distacco di realtà, che l’enunciato politico subisce, spinto com’è sul piano dell’astrazione comunicativa.

Le spiegazioni fornite da Alfredo Rossi nella sua monografia su Petri sul perché di questa scelta stilistica mi sembrano perfettamente condivisibili. Il suo, come del resto tutto il cinema “politico” italiano, si configura come un discorso basato sull’intrigo di potere.

L’intrigo dice che vi è qualcosa che va svelato, da parte di qualcuno, di una certa scena: il che significa struttura a chiave dell’enigma, edipica […] ciò che è davvero in gioco è un sapere intorno ad un qualcosa. Deus ex machina di questa produzione di sapere è l’eroe mitico (che talvolta è eroe negativo, come in A ciascuno il suo, oppure comico, come in Indagine). […] Ma è in gioco anche un secondo fattore: la credenza che vi sia una soluzione dell’enigma, che la Scena ricopra, celi, una Verità svelabile”2.

In questa logica il cinema politico italiano tenta di dire la verità sui meccanismi di Potere in Italia negli anni ‘70. Per fare ciò Petri compie “la maggiore scoperta linguistica del cinema politico italiano, l’invenzione della necessità scritturale di attribuire all’ordine del Politico la maschera di Gian Maria Volontè” 3, a quello del Privato la maschera di Marcello Mastroianni e a Salvo Randone quella del Padre, nella doppia versione di Padre-Ideale (I giorni contati, L’assassino) o Padre-Folle (La classe operaia, La proprietà, La decima vittima). Prendere cioè un meccanismo tipico della commedia all’italiana (riorganizzare al livello del simbolico un ordito di classe attraverso una fisiognomica di classe4) e portarlo ad un livello di assoluta mimesi e, di conseguenza, di assoluta indifferenza rispetto al modello originario. La maschera permetterebbe di superare l’impaccio dato dalla massima “né il Potere né la Morte si possono guardare fissamente 5 ”. Il vero effetto di maschera non è perciò di contraffare o di caratterizzare, ma piuttosto di “inscenare una disdicenza della soggettività per accedere al sembiante, ovvero a ciò che funziona da esca al desiderio (il Potere, la Morte)6 ”. Si impersona l’oggetto del desiderio, si intraprende il gioco dell’assoluta mimesi che è, al tempo stesso, la tragedia della mimesi.

Per tornare al discorso su Petri e sul suo stile, Rossi dice: “Quando in Todo modo Volontè assume la maschera di Aldo Moro non significa per nulla tratteggiare in modo grottesco un uomo del potere democristiano: Volontè è Moro allo stesso modo in cui negli antichi riti festivi un contadino impersonava il Re come Potere. Diciamo così: Volontè-Moro altro non è che Re Carnevale 7 ”. La festa è il germe propulsore del rito della maschera ma non riguarda il rapporto servo/padrone dal punto di vista della presa di potere-reale, poiché il politico-reale è proprio quello che la scena immaginaria tende ad escludere dal proscenio. Qui si situa il paradosso dell’allegoria: per dire tutto, la verità del Potere, non dice nulla del potere-reale.

Ma del Carnevale Petri scorge un aspetto fondamentale e cioè che il suo delirio è sempre al presente. L’immaginario si fonda sull’attualità della politica-reale: Re Carnevale è il travestimento del Re attuale. Da qui la strettissima aderenza tra il suo cinema e gli avvenimenti caldi della vita del paese: gli scontri tra polizia e movimento studentesco del ’68 (Indagine), la lotta per il contratto (La classe operaia), la crisi del regime della Dc (Todo modo).

Se la festa è il tentativo di accedere a una dimensione che si può chiamare del sublime, perché è un’esperienza che fa “a meno” della realtà, la esclude, il suo contraccolpo non può che essere irrimediabilmente comico nell’enunciato. Nell’intervallo che si apre nella funzione sublime dell’allegoria si introduce dunque il tarlo derisorio del reale,corporale, viscerale, basso, il quale “risputa” nella scena da cui era stato tenuto lontano e ne mina le basi.

Questo dualismo sublime/comico sarà sempre presente nelle opere di Elio Petri, punto di forza e fonte principale del fraintendimento (della critica, del pubblico, sempre sperando che di fraintendimento si tratti e non, ad esempio, di ostracismo verso e proprio) di cui è stato ed è oggetto: un continuo sforzo di rappresentare l’irrappresentabile, il reale, il Potere, il sublime, la Morte, oscillando incessantemente fra perfezione della rappresentazione ideale e l’orrore, il materialismo della realtà hic et nunc.

Emblematico dell’incomprensione di cui sopra può essere questo brano di Aggeo Savioli a proposito de I giorni contati : ”Nei Giorni contati si determina, inoltre, un significativo contatto o impatto fra temperie culturali apparentemente remote, “alto” e “basso” (il sublime e il comico diremmo ora), ove si rispecchia la contraddittoria esperienza dell’autore, quel certo carattere plebeo che assume la sua stessa voracità intellettuale: la citazione della canzonetta d’epoca, omaggio alla figura paterna incarnata da Salvo Randone, da un lato; e, dall’altro, all’estremo, il dissolvimento delle immagini del reale in un impasto di luce e ombre che rimandano alla pittura d’avanguardia8 “.

Quest’incomprensione di fondo, il confondere il kitch, dando dunque un giudizio estetico, con una volontà di rappresentazione ben precisa, che con l’estetica ha ben poco a che vedere, è presente anche nelle altre opere ed è ciò che tenterò di smascherare prendendo una sequenza-campione dei film di Petri.

Perché, parafrasando il saggio Stile e forma di Paolo Bertetto “l’analisi della forma permette di interpretare l’immagine come sintesi di immagine-visione-pensiero, mentre l’analisi dello stile rischia di perdere la profondità e la molteplicità stratificata dell’immagine ”.

1 Montesquieu Charles L. de, Lo spirito delle leggi, Utet, 2005.

2 Alfredo Rossi, Elio Petri, Il castoro cinema, La nuova Italia, 1980, p.13.

3 Ibidem, p.14.

4 Alfredo Rossi, Elio Petri, Il castoro cinema, La nuova Italia, 1980, p. 18.

5 François de La Rochefoucauld, Massime, traduzione di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano, 1978.

6 Alfredo Rossi, Elio Petri, Il castoro cinema, La nuova Italia, 1980, p.16.

7 Ibidem, pag. 18.

8 Elio Petri, a cura di Anna di Martino e Andrea Morin, Quaderni del Lumiere, Entra mostra internazionale del cinema libero, Bologna, 1995, p. 34.